Il vento soffiava cupo attraverso i bassifondi di Minoc, riversando qua e là le foglie secche, come se un’oscura mano le spazzasse lungo le mura dei tuguri abbandonati.
Il silenzio cingeva in grembo questa notte, come tante prima di essa, riservando alla desolazione le sue sicure braccia immobili.
La vita frenetica aveva abbandonato quelle lande del mondo, e dove un tempo la popolazione gremiva le piazze, ora le edere e lo stramonio infestavano mura e selciato, crepando e sgretolando la pietra.
All’orizzonte la luna fendeva l’oscurità, riempiendo la notte di vane ed estatiche promesse.
Non un sibilo, non un sussurro, nulla smuoveva quella tombale attesa, delle ore, dei silenzi, che la separavano dall’alba.
Solo due occhi, rossi come tizzoni ardenti, solcavano e scrutavano dall’alto di un torrione; in essi bruciava la febbre dell’attesa, in essi erano sigillate antiche promesse incompiute.
Le dita tracchiavano cerchi, in movimenti frenetici e dissennati.
La voce sibilando spezzò l’incantesimo di quell’attimo.
“Rel Xen Vas Bal”
E la luna si tinse di rosso.